Moebius Regista: Kim Ki-duk Cast: Jae-hyeon Jo, Eun-woo Lee, Young Ju Seo
Moebius
Regista: Kim Ki-duk
Cast: Jae-hyeon Jo, Eun-woo Lee, Young Ju Seo
Anno: 2013
Provenienza: Corea del Sud
Autore Recensione: Roberto Matteucci
“Orgasmo senza pene.”
Kim Ki-duk nel 2012 ha vinto la Mostra del cinema di Venezia con Pietà.
L’anno successivo presenta, fuori concorso sempre a Venezia, in prima mondiale, la sua nuova opera Moebius.
Due giorni dopo la mostra italiana è uscito nella Corea del Sud tagliato di tre minuti, decisi dal regista, su richiesta della censura coreana. Lo stesso lo ha confermato:
“La versione originale del film non potrà mai essere vista in Corea; dopo averlo sottoposto alla commissione di censura, ho prodotto una seconda versione con circa 3 minuti di tagli, per soddisfare le leggi coreane, che si prefiggono di proteggere i giovani.”
Moebius è un film “cazzocentrico”.
Tutto si svolge, anche per le donne, intorno al pene! È un vero totem, al quale si celebrano riti, feste, sacrifici umani.
La pellicola è colma di metafore e globalmente freudiano. Cominciamo dal medico viennese:
«Sappiamo dall’analisi di molte donne nevrotiche che esse attraversano uno stadio primitivo in cui invidiano ai fratelli il segno della virilità e si sentono svantaggiate e minorate a causa della mancanza di esso […]
Noi includiamo questa “invidia del pene” nel “complesso di evirazione”.
[…] le bambine spesso non fanno alcun mistero della loro invidia né della conseguente ostilità contro i privilegiati fratelli.» (Sigmund Freud, Psicologia della vita amorosa, Bollati Boringhieri, Torino, Prima edizione 1976, ristampa maggio 2009)
Prima scena.
La madre beve, il padre è depresso.
Il figlio si mette la divisa per la scuola.
Il padre ha un’amante, la moglie lo sa.
La femmina cerca di tagliare il cazzo del marito mentre sta dormendo.
Esso si accorge e la scaccia a malo modo.
Siccome la donna qualcosa deve tagliare, entra nella stanza del figlio e gli trancia il pistolino.
Corre in ospedale e lo rimandano a casa nella stessa giornata (boh, è mai possibile?).
La madre sparisce. Rimangono i due uomini.
Nell’inconsapevolezza il padre accompagna il figlio ad analizzare come ottenere un ritorno alla vita normale. Su internet trova un sito sostenitore dell’orgasmo senza pene, tramite un forte dolore prolungato e duraturo. Per primo ci prova il genitore strofinandosi con una pietra il piede fino ad avere un’ustione.
L’ilarità in sala raggiunge livelli da film comico, ma l’assurdità è non è ancora al massimo.
Addirittura il figlio evirato, finisce in prigione perché accusato di stupro di una commessa, insieme a una banda di ragazzi.
Ma la suprema allegria si raggiunge con una scena sarcastica, divertente e ironica.
La ragazza stuprata taglia il pene a uno dei suoi violentatori. Osserviamo lo stupratore mentre cerca di prendere il suo orpello per portarlo all’ospedale nella speranza di ricucirlo. Il ragazzo interviene, vuole impedirglielo, e fra i due inizia una paradossale e stravagante lotta con il cazzo monco volante da una parte all’altra, con un risultato tremendo. Gli fugge dalla mano e finisce in strada, dove un camion lo schiaccerà per sempre.
Superiamo il concetto di trama, qui non esiste.
Si trovano delle riflessioni psicologiche, e umane.
Il finale è un concentrato del complesso di Edipo. La madre ritorna a casa. Nel frattempo il figlio ha avuto un trapianto di un nuovo pene, ma non riesce ad avere un’erezione. Quando la mamma gli si avvicina, si eccita e mostra il nuovo pisello duro pronto a una scopata incestuosa.
Kim Ki-duk ha superato se stesso per scene difficili e sovradimensionate.
L’ esaltazione lo spinge a esagerare, fino a provocare una reazione contraria.
Con Pietà il gioco era tutto psicologico, basato sulle reazioni psicoanalitiche: la madre e il figlio.
In Moebius è tutta fisicità e violenza. Il peggiore degli incubi per un uomo è la perdita della propria virilità, e il regista, mostrandocelo in mille momenti, vuole imporci una corporeità menomata.
L’autore è un maestro nel procurarci angosce, con scene girate nel silenzio assoluto, salvo una colonna sonora di mugolii.
A differenza di Pietà gli manca lo splendore del personaggio. La madre di Pietà è astuta e crudele, vendicativa e affettuosa. Qui i caratteri appaiono sfuggenti, solo preoccupati ad affettarsi la minchia.
Come in tutti i film dell’autore, nelle strade notturne di Seoul c’è una profonda esistenza cattiva e brutale, ma in questa storia spunta, all'improvviso un uomo sconosciuto, il quale s’inchina e prega di fronte a una statua di Buddha. La metafora è evidente.
Kim Ki-duk ha plasmato una nuova razza, una nuova specie di sesso, un animale moderno.
A questo essere non serve il pene, esso lo trova noioso, un impiccio, un fronzolo oscillante, un Alien dalla vita propria. Perciò lo elimina e rimuovendolo sparisce la necessità di un piacere a due, di un rapporto con le donne. Kim Ki-duk dimostra la possibilità della nuova specie di abbandonare il sesso, tritando il nostro ammennicolo voglioso per dedicarsi al piacere masochista. Non abbiamo bisogno di un partner per una nostra soddisfazione e quindi non abbiamo bisogno di un pene: ci basta il dolore per avere un orgasmo. E come sa soffrire l’essere umano nessuno è capace.